Durante una processione, la macchina processionale lignea che raffigurava la Vergine cadde nel rio Essa per la manovra grossolana di uno dei portatori. Lo sgomento colse tutta la popolazione, che temeva di perdere la preziosa statua ma soprattutto la protezione della Madonna. I più anziani proposero di svuotare il rio con capienti mestoli di rame, e riuscirono così a salvare la statua processionale. Oggi potremmo ridere di questa storiella e pensare all’insensatezza del metodo: ma i Piobesini ci tenevano molto al conforto della Vergine. In ogni caso, lo svuotamento di grandi quantità di acqua con mezzi di fortuna è testimoniata già nell’antichità: Sant’Agostino ci narra che incontrò un bambino che cercava di svuotare il mare con una conchiglia; il santo rise della cosa, ma il Divino Infante (ecco chi era il bambino!) gli dichiarò che nulla è impossibile a chi ha fede. La vicenda, che ha tutto il sapore dell’ingenuità con cui veniva condita la religiosità popolare, testimonia in ogni caso un profondo attaccamento alla devozione verso i Santi, Madonna compresa. E come non andare allora a ricercare testimonianze antiche della presenza cristiana nel nostro territorio, puntando la rotta a qualche chilometro dall’attuale centro urbano di Piobesi Torinese, per andare alla ricerca delle radici cristiane dell’antico insediamento di Publice?
Lungo un asse stradale che risale all’Alto Medioevo ma che probabilmente esisteva già nella Tarda Antichità, e che portava pellegrini e mercanti da Augusta Taurinorum verso Forum Vibii (oggi Cavour), troviamo l’importante pieve San Giovanni Battista, fondata nel VI-VII secolo probabilmente dai Longobardi. Di questo primo edificio religioso sussistono ancora significative vestigia, inglobate nella pieve successiva, di dimensioni ben maggiori. Qui, tra XI e XVI secolo, si concentrò la devozione dei Piobesini e dei loro feudatari, forse i Da Castagnole, che fecero erigere la nuova chiesa e, in concorso con le maggiori famiglie del territorio, la fecero affrescare con le immagini dei santi che la pietà popolare ammirava e venerava. La pieve conserva quindi la testimonianza di una fede viva, che intervenne nei secoli ad apportare migliorie, restauri e aggiunte (come la bella cappella barocca nel 1717); anche se il nuovo borgo fortificato voluto dal vescovo di Torino nel XV secolo (l’attuale insediamento di Piobesi) era ormai lontano, i Piobesini non abbandonarono mai la loro chiesa madre, tanto che i pievani, prima di prender possesso della chiesa nuova, all’interno del recinto fortificato, erano investiti della loro autorità nella pieve.
Sulle pareti ritroviamo il ricco apparato della devozione, che si affidava ai Santi per proteggere la famiglia ma anche gli animali e i campi dalle malattie e dalle invasioni di insetti nocivi: così, accanto a San Rocco e a San Sebastiano, protettori contro la peste, ritroviamo Sant’Antonio abate, il cui patronato si estendeva dalle tossinfezioni alimentari (la temuta intossicazione da segale cornuta, che mieteva numerose vittime nel Medioevo) alla cura degli animali domestici. E appare anche San Grato, che oltre a difendere dalla lebbra, dirigeva la grandine nei pozzi, affinché non danneggiasse i campi, ed operava per evitare le invasioni della cavallette. Un particolare curioso: nella pieve, San Grato indica un pozzo, in cui compare una faccia; è il capo decollato del Battista, ritrovato dal santo in un suo pellegrinaggio in Siria e riportato in Europa, dove avrebbe generato preziose reliquie.
San Giovanni Evangelista, dipinto con la piuma in mano e il cartiglio con l’inizio del suo vangelo, regge un calice: simbolo del tentativo di avvelenamento del vino dell’Eucarestia, da cui uscì indenne: qui possiamo ipotizzare, nella leggenda, un tentativo di screditare l’eresia, che in quegli anni “avvelenava” “la vera fede”. Ritroviamo San Pietro con le chiavi in mano, Santa Maria Maddalena, col vaso di unguenti che servirono a coprire il corpo del Cristo morto, e un emaciato San Bernardino da Siena, che regge la famosa “tabella” con la scritta “Gesù Salvatore degli Uomini”. In un angolo discosto, fa bella mostra di sé S. Stefano, colpito dalle pietre del martirio. Tra età tardogotica e proto rinascimento, due Madonne in trono con il Divino Infante si offrono alla venerazione. Un’altra Madonna, ma in questo caso in atteggiamento estremamente umano, allatta il Bambino, nella lunetta della facciata: Gesù afferra con una manina il braccio della Madre, mentre con l’altra regge un cardellino, simbolo del suo martirio in Croce: nell’affresco, Maria veste i panni di Madre della Chiesa, che offre nutrimento ai fedeli; il cardellino simboleggia la morte e la resurrezione: secondo le leggende medioevali, l’uccellino, col pettirosso, tentò di estrarre le spine dalla corona a Gesù agonizzante in croce, ferendosi e colorando per sempre le proprie piume. Non sappiamo quanto intuisse di questo complesso itinerario il popolo, la gente comune.
Affresco della lunetta, 1359; pieve San Giovanni ai Campi
Ma è certo che sapesse ben decifrare le chiavi di S. Pietro, o la presenza colossale di S. Cristoforo, protettore dei viandanti. E sapeva bene che il demonio, incatenato, serviva S. Bernardo di Mentone come un cagnolino, elemento oggi poco decifrabile nel lacerto di affresco a sinistra della porta principale.
San Cristoforo, dipinto sulla facciata della pieve San Giovanni ai Campi.